Le migliori chiese e monasteri del Montenegro

Non avevo mai pianificato di diventare un esperto in monasteri montenegrini. Tutto è iniziato con una deviazione impulsiva verso un cartello che indicava “Manastir Ostrog 15 km”. Chi in preda al buon senso costruisce un monastero a 900 metri di altezza?, mi sono chiesto. Evidentemente, qualcuno con una fede molto solida e un totale disprezzo per le leggi della fisica.

Quella deviazione si è trasformata in un’odissea spirituale involontaria attraverso uno dei paradossi geografici più affascinanti d’Europa. Il Montenegro, con i suoi 13.800 chilometri quadrati racchiude oltre cinquanta edifici sacri cristiani. È la più alta concentrazione di spiritualità per metro quadrato che io abbia mai incontrato.

C’è il Monastero di Cetinje che custodisce la mano di Giovanni Battista, il Monastero di Morača del 1252 con un affresco di un corvo che nutre il profeta Elia, il Monastero di Dajbabe letteralmente scavato nella roccia come se fosse stato progettato da Fred Flintstone in vena mistica. Lungo la costa spuntano il Monastero di Savina a Herceg Novi e la Cattedrale di San Trifone a Cattaro, dove le reliquie del santo escono dal loro cofanetto d’argento una volta all’anno. Poi ci sono Reževići tra le onde, Piva che negli anni Settanta ha dovuto traslocare come un gigantesco kit Ikea spirituale, Gradište con il suo bizzarro San Cristoforo dalla testa di cane, e Beška sull’isola del lago di Scutari.

Ma è stato il silenzio a colpirmi di più. Non il silenzio ordinario di una biblioteca, ma qualcosa che ti colpisce come uno schiaffo gentile, che ti fa realizzare quanto rumore inutile riempia normalmente la tua vita. È lì che ho capito la differenza tra cercare monasteri e farsi trovare da loro. Quando li cerchi, arrivi con le tue aspettative. Quando sono loro a trovarti, ti fermi e basta. Respiri. E capisci perché qualcuno, mille anni fa, ha guardato quel posto e ha pensato: “Ecco, qui ci costruisco una chiesa.”

Ostrog, il Monastero incastonato nella roccia

La prima volta che vedi Ostrog, il cervello si rifiuta di processare quello che gli occhi gli stanno inviando. Davanti a te si staglia una parete rocciosa verticale, e incastonato lì dentro – letteralmente dentro la roccia – c’è un monastero bianco che brilla come un dente in una bocca di pietra.

“Ma davvero hanno costruito un monastero ?” è la domanda spontanea. La risposta è sì, l’hanno fatto davvero, e no, evidentemente non hanno consultato nessun ingegnere del XVII secolo.

San Basilio Ostroška, il monaco che ha avuto questa brillante idea, dev’essere stato uno di quei personaggi che guardavano una montagna e pensavano: “Ecco il posto perfetto per casa.” Il fatto che il suo corpo sia stato ritrovato perfettamente conservato sette anni dopo la morte aggiunge mistero alla faccenda. Da scettico, penso che l’aria rarefatta a 900 metri abbia proprietà conservative naturali. Da essere umano curioso, ammetto che c’è qualcosa di commovente nel pensiero di un uomo che ha scelto di vivere sospeso tra cielo e terra.

Il viaggio verso Ostrog mette alla prova sia la tua auto che la tua fede nella fisica. La strada si arrampica con curve progettate da qualcuno con un senso dell’umorismo perverso. La mia Renault ha iniziato a emettere suoni che non sapevo fosse in grado di produrre. A metà salita, ho avuto la sensazione che anche lei stesse pregando.

Ma quando arrivi in cima capisci perché vale la pena. Il panorama della pianura di Bjelopavlići è di quelli che rendono giustizia al termine “mozzafiato” – letteralmente: per un momento ti dimentichi di respirare. Non è solo uno spostamento fisico, è un pellegrinaggio verticale.

E di pellegrini, a Ostrog, ne incontri di tutti i tipi. C’è qualcosa di democratico in questo posto: ortodossi serbi che pregano accanto a cattolici croati, musulmani bosniaci che accendono candele insieme a protestanti tedeschi. È come se la montagna avesse creato una zona franca spirituale dove le etichette religiose diventano meno importanti. Ho visto un imam discutere amichevolmente con un pope ortodosso mentre aspettavano il loro turno. In qualsiasi altro contesto nei Balcani, questo avrebbe fatto notizia. Qui, è semplicemente martedì.

Il monastero è un capolavoro di ingegneria impossibile. Le celle sono scavate nella roccia viva, come se qualcuno avesse convinto la montagna a fare spazio. Gli affreschi sulle pareti interne hanno resistito a secoli di intemperie, guerre e alla perplessità di visitatori come me che si chiedono come diavolo abbiano fatto a dipingere lassù senza cadere nel vuoto.

Ma quello che colpisce di più è il silenzio. Non l’assenza di rumore, ma un silenzio quasi fisico, denso, che sembra avere una sua presenza. È il tipo di silenzio che ti fa sussurrare anche quando non c’è nessuno in giro.

Mentre stavo appoggiato al parapetto che separa il monastero dal vuoto, mi è venuta una riflessione: perché i santi scelgono sempre i posti più scomodi? San Simeone in cima a una colonna, San Francesco nelle grotte, San Basilio su una parete a strapiombo.

Forse la risposta è proprio in quei 900 metri che ti separano dal mondo quotidiano. Per trovare qualcosa di diverso, devi andare in un posto davvero diverso. E se quel posto è raggiungibile solo con auto che ansimano e curve che pregano, fa parte del viaggio.

Cetinje, il Monastero dei tesori impossibili

C’è qualcosa di profondamente ironico nel fatto che Cetinje, ex-capitale del Montenegro, sia oggi una cittadina tranquilla di quindicimila abitanti che custodisce reliquie più preziose del Metropolitan Museum di New York. È come scoprire che tua nonna tiene nel cassetto della biancheria i gioielli della corona inglese. Solo che in questo caso, i gioielli sono pezzi autentici della storia cristiana.

Il Monastero di Cetinje, con la sua facciata modesta che non lascia presagire nulla di straordinario, è quello che gli esperti di marketing chiamerebbero un “understatement clamoroso”. Dall’esterno sembra il tipo di posto dove al massimo potresti trovare un prete che ti offre un tè caldo. Invece, nelle sue sale silenziose, sono custoditi frammenti della Santa Croce, le reliquie di San Pietro di Cetinje e – preparati a questo – la mano destra di Giovanni Battista.

Ora, quando il monaco ti accompagna davanti alla teca e dice con naturalezza: “Ecco, questa è la mano di Giovanni Battista”, il cervello attraversa diverse fasi. Prima c’è il dubbio (“Ma davvero?”), poi l’incredulità (“No, davvero?”), seguita da una strana vertigine temporale che ti fa realizzare che stai guardando qualcosa che ha toccato Gesù Cristo. È uno di quei momenti in cui la Storia con la S maiuscola ti cade addosso come un mattone benedetto.

La storia di come queste reliquie siano finite qui è una di quelle avventure che farebbero invidia a Indiana Jones. Hanno attraversato guerre, sopportato furti, resistito a incendi che avrebbero dovuto distruggerle. Durante le guerre mondiali, sono state nascoste, spostate, protette da generazioni di monaci che le hanno trattate come tesori di famiglia. È incredibile pensare che oggetti così antichi e preziosi siano sopravvissuti intatti alle devastazioni di secoli di conflitti balcanici.

“È un miracolo che siano ancora qui,” mi ha detto padre Miloš, il monaco che mi ha fatto da guida. E io, da scettico cronico quale sono, ho dovuto ammettere che aveva ragione. Non importa se credi nei miracoli in senso stretto: il semplice fatto statistico che questi oggetti abbiano attraversato millenni senza andare perduti è già di per sé abbastanza miracoloso.

Ma cosa rende davvero sacro un oggetto? Seduto nella piccola cappella del monastero, circondato dal silenzio che sembra addensarsi come nebbia intorno alle reliquie, me lo sono chiesto sul serio. È la fede di chi le venera? È la loro autenticità storica? O è semplicemente il peso dell’intenzione umana accumulata nel corso dei secoli?

Personalmente, non so se credo che quella sia davvero la mano di Giovanni Battista. Ma so che mi sono trovato a sussurrare anche io, e che quando sono uscito dal monastero avevo una strana sensazione di aver toccato qualcosa di più antico e profondo di me. Non è fede, esattamente. È più simile al rispetto che provi quando entri in una biblioteca molto antica: sai che ti trovi in presenza di qualcosa che è sopravvissuto molto più a lungo di te e probabilmente gli sopravvivrà.

Monastero di Morača: l’arte che sopravvive ai secoli

Il Monastero di Morača mi ha accolto con quello che posso solo descrivere come il più surreale servizio di catering della storia dell’arte cristiana: un affresco del XIII secolo che raffigura un corvo intento a nutrire il profeta Elia con la dedizione di un cameriere stellato. Non so voi, ma quando vedo un uccello dipinto 800 anni fa che porta il pranzo a un santo, non posso fare a meno di sorridere. È uno di quei momenti in cui l’arte medievale ti ricorda che, fondamentalmente, anche i profeti dovevano mangiare.

Costruito nel 1252 da Stefano, figlio del re Vukan e nipote di Stefano Nemanja, Morača è il prodotto di una dinastia che aveva un rapporto con i monasteri simile a quello che alcuni collezionisti moderni hanno con le auto d’epoca: ne costruivano uno ogni volta che ne avevano l’occasione. I Nemanjić erano i Medici dei Balcani medievali, solo che invece di commissionate palazzi a Firenze, spargevano monasteri per i monti come se fossero semi benedetti.

L’architettura del Monastero di Morača è quello che gli esperti chiamano “stile bizantino”, che per chi come me non distingue un capitello da un campanile significa sostanzialmente: “Sembra antico, importante, e incredibilmente solido.” Le chiese – ce ne sono due, una dedicata all’Assunzione della Beata Vergine Maria e l’altra a San Nicola – hanno quella caratteristica di sembrare cresciute dalla terra piuttosto che costruite dall’uomo. Le cupole si innalzano con una naturalezza che fa pensare che l’architetto abbia semplicemente chiesto gentilmente alla pietra di assumere quella forma.

Ma è quando entri nella chiesa principale che capisci perché Morača è famosa. L’iconostasi – quella specie di parete decorata che separa la navata dal santuario – è come una biblioteca di santi dipinti. Ogni icona racconta una storia, ogni volto ha un’espressione che sembra voler comunicare qualcosa di specifico a te, personalmente. È un po’ come trovarsi in una galleria d’arte dove tutti i quadri ti guardano, ma invece di essere inquietante è stranamente rassicurante.

Le icone medievali di Morača sono considerate capolavori dell’arte bizantina, e anche un profano come me riesce a capire perché. C’è una qualità quasi magnetica in quei volti dipinti secoli fa, una intensità che ti fa dimenticare che stai guardando pigmenti su legno. Sono facce che hanno attraversato guerre, invasioni, cambiamenti di dinastia, e sono ancora lì a guardarti con la stessa espressione serena di quando il pittore ha posato il pennello per l’ultima volta.

Quello che più mi ha colpito di Morača è stata la sua capacità di far convivere il solenne con il quotidiano. Mentre contemplavo l’iconostasi, sentivo in sottofondo il verso delle capre del monastero che pascolavano nel cortile. È questa mescolanza di sacro e terreno che rende questi posti così profondamente umani. I monaci che hanno dipinto queste icone sapevano che la spiritualità non è fatta solo di estasi mistiche, ma anche di corvi che portano il pranzo e di capre che belano nel cortile.

Podgorica e l’inganno della Cattedrale della Resurrezione

Se c’è una cosa che il Montenegro mi ha insegnato, è che l’apparenza inganna sempre. Ma nessun posto me l’ha dimostrato con più eleganza della Cattedrale della Resurrezione di Cristo a Podgorica, un edificio che è riuscito a farmi credere di avere almeno otto secoli quando in realtà è più giovane del mio iPhone.

La prima volta che l’ho vista spuntare tra i palazzi della capitale, il cervello ha automaticamente classificato: “Cattedrale bizantina, XII-XIII secolo, molto ben conservata.” L’architetto Predrag Ristić ha fatto un lavoro talmente convincente nel replicare lo stile tradizionale che mi sono trovato a chiedermi come diavolo fosse sopravvissuta così intatta alle guerre balcaniche. La risposta, naturalmente, è che non ha dovuto sopravvivere a nulla: è stata completata nel 2013, il che la rende più o meno coetanea di Instagram.

C’è qualcosa di profondamente montenegrino in questo approccio: costruire una cattedrale che sembra antica in un paese dove quasi tutto è davvero antico. È come se Podgorica avesse deciso che, essendo l’unica capitale europea senza cattedrale, non poteva accontentarsi di una chiesa qualsiasi. Doveva essere qualcosa che sembrasse degna di rivaleggiare con San Trifone a Cattaro o con Ostrog, anche se significava iniziare da zero nel 1993.

E poi ci sono i dettagli che ti ricordano dolcemente che sei nel XXI secolo. Le diciassette campane nelle torri gemelle includono quella che è ufficialmente la campana più grande dei Balcani: undici tonnellate di bronzo che, quando suona, probabilmente fa tremare i vetri fino a Belgrado. È il tipo di record di cui solo una nazione giovane può andare orgogliosa: “Certo, la nostra cattedrale ha vent’anni, ma la nostra campana è ENORME.”

L’interno è dove le cose si fanno davvero interessanti. Gli affreschi seguono la tradizione bizantina dell’oro su fondo sacro, ma con un colpo di scena che nessun monaco medievale avrebbe mai immaginato: secondo molti visitatori, alcuni dei volti dannati nelle scene dell’inferno assomigliano straordinariamente a Marx, Engels e Tito. Non posso confermare ufficialmente questa interpretazione – i religiosi locali tendono a cambiare discorso quando glielo chiedi – ma posso dire che è il primo posto di culto dove mi sono trovato a giocare a “indovina il leader comunista” durante la messa.

È geniale, se ci pensate: trasformare l’iconografia sacra in un sottile commento politico su vent’anni di storia jugoslava. È teologia applicata con un pizzico di rivincita storica, tutto nascosto dietro l’apparente innocenza di una scena apocalittica tradizionale. Martin Lutero sarebbe stato orgoglioso di tanta creatività protestantiva, anche se probabilmente avrebbe avuto qualche perplessità sul gold leafing eccessivo.

Ma quello che più mi ha colpito della Cattedrale della Resurrezione è stata la sua semplice esistenza. Qui c’è una città che ha deciso che meritava una cattedrale degna del nome, e l’ha costruita con la stessa determinazione con cui i suoi antenati avevano scavato Dajbabe nella roccia. Non importa che sia del 2013: quando ti trovi davanti a quelle torri bianche che si stagliano contro il cielo di Podgorica, capisci che a volte l’autenticità non ha a che fare con l’età, ma con l’intenzione. E l’intenzione, qui, era chiaramente quella di costruire qualcosa che durasse altri mille anni, anche se dovevano partire da zero.

Monastero di Dajbabe

La storia del Monastero di Dajbabe inizia nel 1897 con un pastore di nome Petko che stava facendo quello che i pastori fanno da millenni: portava le pecore al pascolo sulla collina. La differenza è che Petko ha avuto una visione della Vergine Maria che gli ha sostanzialmente detto: “Ehi, quella grotta lì sarebbe perfetta per una chiesa.” Ora, io non so voi, ma se fossi un pastore e mi capitasse una cosa del genere, probabilmente controllerei prima cosa ho mangiato a colazione. Petko, invece, ha preso la cosa sul serio e ha iniziato a scavare.

Il risultato è probabilmente l’unico monastero al mondo dove l’architetto principale è stata la geologia. Invece di imporre una struttura alla montagna, i costruttori hanno gentilmente chiesto alla roccia se poteva fare spazio per una chiesa. E la roccia, evidentemente di buon umore, ha acconsentito. Il risultato è un luogo di culto che sembra cresciuto dall’interno della terra, come se Madre Natura avesse deciso di mettersi a fare l’arredatrice sacra.

L’ingegneria della fede, come l’ho chiamata io, è una cosa affascinante. Scavare una chiesa nella roccia viva richiede un tipo di determinazione che va oltre la normale ostinazione umana. Bisogna avere una fede talmente solida da convincerti che vale la pena rimuovere tonnellate di pietra a colpi di piccone per creare uno spazio dove pregare. È come decidere di costruire una cattedrale partendo dall’interno di una montagna, il che, se ci pensate, è esattamente quello che hanno fatto.

Il vero genio di Dajbabe, però, è stato Simeon Popović, il primo abate e artista residente. Quest’uomo ha passato il resto della sua vita a dipingere affreschi sulle pareti della grotta-chiesa, trasformando le irregolarità naturali della roccia in tele per la sua arte. Ha dipinto fino al giorno della sua morte, letteralmente con il pennello in mano, come se le pareti gli stessero sussurrando dove mettere ogni pennellata. I suoi affreschi seguono le curve naturali della roccia con una fluidità che fa sembrare che la montagna stessa stia raccontando una storia sacra.

Quello che più mi ha colpito di Dajbabe è stato il rapporto di rispetto totale con l’ambiente naturale. Invece di radere al suolo una collina per costruire una chiesa, hanno lavorato con la montagna, adattando i loro piani ai capricci della geologia. È architettura che si inchina alla natura, non il contrario. L’unica parte del monastero visibile dall’esterno è un modesto portico con campanili – tutto il resto è nascosto nella roccia come un segreto che la montagna custodisce gelosamente.

Camminando attraverso le sale scavate nella pietra, con la luce che filtrava dalle aperture naturali e gli affreschi di Simeon che sembravano emergere dalla roccia stessa, ho pensato che forse questo è il modo in cui dovremmo sempre costruire: non come conquistatori che piegano l’ambiente ai nostri desideri, ma come ospiti che chiedono gentilmente permesso.

In un mondo dove troppo spesso l’architettura urla la sua presenza, Dajbabe sussurra. E a volte, ho scoperto, i sussurri si sentono molto meglio delle grida.

Monastero di Savina e Chiesa di San Trifone

Quando arrivi sulla costa montenegrina dopo aver visitato monasteri arroccati su montagne impossibili, ti aspetti un po’ di respiro spirituale. Invece, il mare Adriatico ti accoglie con due delle chiese più straordinarie dei Balcani, come se la natura avesse deciso che anche le vacanze al mare dovessero includere una dose di arte sacra medievale.

Il Monastero di Savina, a Herceg Novi, mi ha fatto incontrare Lovre Dobričević – un nome che faresti fatica a pronunciare anche da sobrio e che probabilmente non riusciresti a scrivere correttamente nemmeno con l’autocorrettore. Questo pittore di Dubrovnik del XV secolo ha lasciato nella piccola chiesa del monastero alcuni degli affreschi più belli che io abbia mai visto. E credetemi, dopo tre monasteri montenegrini, iniziavo a considerarmi un quasi-esperto in affreschi bizantini.

Il piccolo Monastero dell’XI secolo di Savina è un corso intensivo su come riconoscere l’arte bizantina con influenze gotiche. Se i volti dei santi ti guardano con espressioni che sembrano dire “Ho visto cose che voi umani non potreste immaginare”, probabilmente è bizantino. Se però noti una certa eleganza nelle pieghe delle vesti e una tendenza verso l’alto nelle linee architettoniche, ecco le influenze gotiche che fanno capolino. È come guardare un film in cui due registi molto diversi hanno collaborato senza litigare troppo.

Gli affreschi di Dobričević raffigurano le Grandi Feste e la vita di Cristo con una maestria che ti fa dimenticare che stai guardando pittura su muro. Ogni scena è talmente dettagliata che potresti passare ore a scoprire particolari che prima non avevi notato. È arte che ripaga la pazienza, il che è piuttosto ironico in un’epoca in cui tutto deve essere consumato in trenta secondi o meno.

Pochi chilometri più a sud, a Cattaro, la Cattedrale di San Trifone mi ha accolto con quello che potrei definire il più elegante esempio di architettura religiosa con vista mare che io abbia mai incontrato. San Trifone, patrono della città, riposa in una teca d’argento che viene aperta una sola volta all’anno, il 4 febbraio. È come avere un santo VIP che concede udienza solo in date prestabilite.

Ma il vero colpo di scena della cattedrale è il balcone. Quando sali e ti affacci sulla baia di Cattaro, capisci che chi ha progettato questa chiesa aveva un senso estetico che andava ben oltre la semplice devozione. È spiritualità con vista panoramica, preghiera con veduta mozzafiato inclusa nel prezzo. Stando lì, con il vento dell’Adriatico che ti scompiglia i capelli e la baia che si estende davanti a te come un quadro impressionista, ho pensato che questo è il tipo di posto dove anche gli atei potrebbero avere improvvise crisi mistiche.

La differenza tra le chiese costiere e i monasteri di montagna è come quella tra un concerto in una sala da concerto e uno in una cattedrale gotica. I monasteri di montagna ti isolano dal mondo, ti obbligano a guardare verso l’interno. Le chiese costiere, invece, ti aprono orizzonti infiniti, ti ricordano che il divino può essere trovato anche nella bellezza del creato.

A Savina e San Trifone, arte sacra e paesaggio naturale collaborano con una naturalezza che fa pensare che sia sempre stato tutto progettato insieme. È come se qualcuno avesse deciso che la spiritualità non dovesse necessariamente escludere le belle vedute, e francamente, dopo aver pregato con vista mare, trovo difficile dargli torto.

Storie di resistenza: i monasteri di Reževići, Piva e Gradište

Alcuni monasteri sembrano avere una vita tranquilla: vengono costruiti, raccolgono fedeli, attraversano i secoli con la placida dignità di pensionati benedetti. Altri, invece, sembrano attrare problemi come magneti spirituali. I monasteri di Reževići, Piva e Gradište appartengono decisamente alla seconda categoria.

Reževići, arroccato tra Petrovac e la costa, ha vissuto quello che si potrebbe definire un curriculum di sopravvivenza degno di un film d’azione. Nel 1979, un terremoto ha deciso che il monastero aveva avuto una vita troppo tranquilla e ha provveduto a distruggerlo completamente. I monaci, evidentemente dotati di una pazienza sovrumana, l’hanno ricostruito pietra su pietra. Poi, nel 2016, qualcuno ha pensato che gli affreschi medievali avessero bisogno di una mano di vernice rossa. Non sto scherzando: un atto vandalico ha danneggiato alcuni degli affreschi più preziosi del monastero.

È qui che entra in scena l’UNESCO, con tutta la sua burocrazia sacra. Guardare l’UNESCO proteggere il patrimonio mondiale è come guardare un padre molto premuroso ma incredibilmente lento che cerca di mettere in sicurezza la casa mentre i bambini stanno già appiccando il fuoco al garage. Le intenzioni sono ottime, i risultati… beh, diciamo che arrivano con i loro tempi. Fortunatamente, Reževići è sopravvissuto anche a questo, dimostrando che a volte la determinazione monastica batte qualsiasi burocrazia internazionale.

Piva, però, ha la storia più surreale di tutte. Negli anni Settanta e Ottanta, questo monastero ha fatto qualcosa che nessun altro edificio sacro nella storia aveva mai tentato: si è trasferito. Letteralmente. Quando hanno deciso di costruire una diga che avrebbe sommerso la sua ubicazione originale, invece di dire “pazienza, costruiamone uno nuovo”, qualcuno ha avuto la brillante idea di smontarlo pezzo per pezzo e rimontarlo altrove. È stata logistica divina al suo meglio: un trasloco monastico che ha richiesto anni di lavoro e una precisione chirurgica che farebbero invidia ai costruttori di Lego.

Ma se volete vedere davvero qualcosa che sfida ogni categorizzazione artistica, dovete andare a Gradište, vicino a Buljarica. Lì troverete un’icona di San Cristoforo che ha qualcosa di leggermente… insolito. Il santo, vedete, ha una testa di cane. Non un cane qualsiasi, ma proprio una bella testa canina attaccata a un corpo umano perfettamente normale. La prima volta che l’ho vista, ho pensato che forse il pittore medievale avesse avuto una giornata particolarmente creativa, o che gli acidi dell’epoca fossero più forti di quanto immaginiamo.

Ma Gradište non è famoso solo per l’iconografia surreale. È qui che è stato scritto il primo abbecedario serbo, alla fine del XVI secolo. I monaci Stefano di Paštrović e Inok Sava sono stati, in sostanza, i primi editori della regione. Immaginate: mentre in Europa si inventava la stampa moderna, questi monaci stavano già creando libri di testo in una grotta montenegrina. È come scoprire che i primi MacBook sono stati assemblati in un monastero tibetano.

Quello che accomuna queste tre storie è una qualità che ho imparato ad associare ai monasteri montenegrini: la resistenza ostinata di fronte all’impossibile. Terremoti, vandali, dighe, teste di cane sui santi – niente sembra in grado di fermare questi posti. Continuano a esistere, a custodire le loro storie bizzarre, e a ricordarci che a volte la sopravvivenza è l’arte più impressionante di tutte.

Beška – L’isola della solitudine

Il lago di Scutari è uno di quei posti che ti fanno capire perché i monaci medievali avevano un istinto infallibile per la geografia della contemplazione. Esteso, silenzioso, con isole che emergono dall’acqua come pensieri che affiorano alla coscienza, è il tipo di paesaggio che sembra progettato appositamente per far riflettere le persone sui grandi temi della vita. O almeno, per farle smettere di controllare compulsivamente il telefono.

L’isola di Beška, con il suo monastero del XIV secolo, è raggiungibile solo in barca. Già questo dovrebbe dirvi qualcosa: per arrivarci devi davvero volerci andare. Non è il tipo di posto dove finisci per caso mentre stai facendo shopping. È una destinazione che richiede intenzione, il che probabilmente fa parte del suo fascino. Quando finalmente metti piede sull’isola, dopo una traversata che ti dà tutto il tempo di prepararti mentalmente, capisci di essere entrato in una dimensione diversa.

Il monastero è costituito da due chiese: una dedicata a San Giorgio (investitura di Đurđe II Stracimirović Balšić, un nome che da solo potrebbe occupare mezza riga di un documento medievale), e l’altra all’Annunciazione della Beata Vergine Maria, voluta da Jelena Balšić. Evidentemente, nella famiglia Balšić costruire chiese era una tradizione consolidata, un po’ come oggi alcune famiglie vanno sempre nello stesso posto per le vacanze.

Ma la vera magia di Beška non sta nell’architettura, bensì nella sua storia come centro di produzione di manoscritti. Nel XIV e XV secolo, questo piccolo monastero era essenzialmente i Google del suo tempo: se avevi bisogno di una copia di un testo importante, andavi lì. I monaci di Beška erano famosi per la loro attività di copiatura, creando libri che sono sopravvissuti fino ai giorni nostri con una dedizione che fa impallidire qualsiasi backup digitale moderno.

Il “Gorički zbornik” è probabilmente il loro capolavoro: un libro che ha attraversato i secoli con la dignità di un sopravvissuto, custodendo storie e saggezza in un’epoca in cui perdere un manoscritto significava perdere per sempre tutto il lavoro di una vita. Tenere in mano una riproduzione di questo testo – l’originale, ovviamente, è custodito con cura maniacale – ti fa sentire connesso a una catena di trasmissione della conoscenza che va dai monaci medievali fino a Wikipedia, passando per secoli di biblioteche e stampatori.

Conclusione: il Montenegro che non ti aspetti

Quando sono partito per il Montenegro, pensavo di andare in un piccolo paese balcanico con belle coste e montagne interessanti. Non mi aspettavo di trovarmi davanti a cinquanta edifici sacri che custodiscono millenni di storia, arte e spiritualità umana. È come ordinare un caffè e ricevere un corso di filosofia insieme al cornetto.

Quello che più mi ha sorpreso è stato l’effetto collaterale involontario di questo tour monastico: mi sono ritrovato più sereno senza averlo cercato. Non è stata una conversione religiosa improvvisa – rimango lo scettico di sempre – ma piuttosto un rallentamento generale del ritmo interno. È difficile rimanere stressati per il traffico di Roma dopo aver contemplato affreschi che hanno guardato passare otto secoli di storia umana.

Viviamo in un paradosso curioso: siamo più connessi che mai, ma spesso ci sentiamo profondamente isolati. Eppure, in luoghi come Beška, Ostrog o Dajbabe, dove non c’è campo telefonico e l’unico wifi è quello della contemplazione, si trova una pace che nessuna app può fornire. È ironico che per sentirsi connessi al mondo bisogni andare in posti dove il mondo sembra molto lontano.

Il Montenegro monastico non chiede fede, non pretende conversioni, non vende soluzioni facili. Offre semplicemente spazio – fisico, mentale, spirituale – per fermarsi e respirare. In un’epoca dove tutto deve essere veloce, efficiente e monetizzabile, c’è qualcosa di rivoluzionario in luoghi che esistono semplicemente per essere, senza scopi ulteriori.

Non serve essere credenti per rimanere incantati da questi posti. Basta essere umani abbastanza curiosi da chiedersi cosa ci sia oltre la prossima curva montana, e abbastanza coraggiosi da scoprire che a volte, quello che c’è oltre, è esattamente quello di cui non sapevamo di aver bisogno.